Sergio Raveggi
Ricordi
Questa è una storia di più di mezzo secolo fa. A dirlo così mi fa un po’ impressione, perché, sia pure marginalmente, l’ho vissuta. Ruit hora, e quello che sembra ancora un passato prossimo in realtà sta diventando un passato remoto.
Verso la fine degli anni Sessanta, da studente da poco arrivato con grandi aspettative all’università, conobbi il giovane professor Elio Conti e fui, come molti, colpito dal suo tratto umano, dalla sua cultura, dal suo impegno nell’insegnamento, dalla sua ironia e anche dalla sua severa schiettezza in un mondo accademico dove molti docenti erano ancora, per così dire, ancien régime, per anagrafe o per vocazione. Perciò io e molti altri diventammo apprendisti medievisti. Il primo anno in un seminario studiammo le eresie, un tema distante, credo, dagli interessi dei più e per la verità anche dalle ricerche dirette del docente, che però in precedenza come ‘comandato’ all’Istituto Storico italiano per il Medioevo sull’argomento aveva acquisito solide competenze frequentando personaggi quali Morghen, Manselli e Frugoni; e poi, incombendo il ’68, ci sentivamo tutti un po’ eretici.
L’anno successivo il seminario fu su La società fiorentina nel XIII secolo con l’iniziazione alla ricerca d’archivio; l’anno ancora seguente quel seminario venne iterato con ricerche più approfondite, molte delle quali sfociarono in temi per le tesi di laurea.
Intanto tra alcuni di noi e Conti il rapporto si era fatto più stretto e nei ritagli di tempo fuori dalle aule c’era la possibilità di discutere di varie cose, di didattica e di storici, del futuro dell’università e di politica, di paesaggi umani e di fotografia. I ventenni della mia generazione, benché ancora non troppo contagiati dalle sirene del consumismo, desideravano molte cose, com’è giusto che sia a quell’età. Tra queste (certo non fra i primi desideri, ma non di rado all’interno di un’ideale classifica dei top ten) c’era anche possedere una buona reflex dotata di obiettivi intercambiali. Elio Conti c’insegnò che la macchina fotografica, da noi intesa fino ad allora come registratore d’immagini di persone care, di vacanze e viaggi, o al massimo di estri creativi più o meno artistici, poteva essere anche uno strumento di lavoro per gli storici: per fotografare le antiche carte, certo, e per documentare edifici, insediamenti e paesaggi le cui secolari vicende indagavamo in archivio. Occasioni privilegiate in questa direzione furono alcune escursioni programmate da Conti per i suoi studenti nelle campagne toscane, con piccoli e allegri cortei di auto, per spiegarci de visu cosa era stato un castrum rurale nel medioevo toscano, cosa un mercatale, una pieve o un mulino, come fosse possibile scorgere tracce della viabilità di un tempo e riconoscere terreni messi a coltura nel passato e ormai abbandonati. Così, a margine delle regole per regestare i documenti, capitava che parlassimo di pellicole e di obiettivi.
Con molto maggiore profitto di me, che ero più interessato alla storia politica cittadina, altri fecero tesoro di quegli insegnamenti, primo fra tutti Riccardo Francovich, che studiava i castelli e poi è diventato uno dei massimi esponenti e innovatori di Archeologia medievale, materia allora in Italia poco più che allo stadio aurorale1. Quindi qui quasi finisce la mia testimonianza diretta, anche perché Conti delle sue ricerche, per le quali già aveva conseguito una fama internazionale, parlava con noi assai poco, né volle mai che i suoi libri fossero inseriti nell’elenco dei testi d’esame. Solo a distanza di qualche anno mi applicai alla lettura sistematica di quanto aveva pubblicato, contributi allora e tuttora fondamentali per la storia agraria e della società rurale, libri, come si suole dire, che non invecchiano, perché costruiti su una solidissima base documentaria e su un rigoroso impianto metodologico. Il resto che dirò lo traggo in gran parte dalle sue stesse pagine.
Un grande progetto
Come studioso Conti era nato contemporaneista (laureato con Carlo Morandi e poi assistente di Gaetano Salvemini), per virare negli anni Cinquanta sulla storia medievale con un grande progetto di ricerca, del quale sto per parlare entrando in medias res. Ma mi piace rilevare come sia assai probabile che quelle sue prime prove di studioso dell’età contemporanea lo avessero convinto di quanto uno storico delle classi sociali e della struttura della società potesse trarre profitto da materie come l’analisi del territorio (ossia la geografia umana) e la statistica. Poi il suo campo di studio divenne quel formidabile fondo custodito nell’Archivio di Stato di Firenze che contiene i Catasti del Quattrocento, cioè l’insieme delle denunce fiscali della città e del territorio scritte (o per gli analfabeti fatte scrivere) da molte migliaia di cittadini e di abitanti del contado e del distretto e poi ritrascritte, annotate e contabilizzate dagli uffici fiscali fiorentini. Questo inestimabile tesoro d’informazioni si era conservato quasi intatto attraverso i secoli, ma per la complessità della materia e per la sua mastodontica mole –oltre mille tra filze e registri- era rimasto pressoché inesplorato, se si eccettuano qualche attenzione alla legge istitutiva e alle successive trasformazioni della legislazione sui censimenti fiscali (nei quali i fiorentini dimostrarono in quei tempi particolare attenzione e inventiva)1 e alcune mirate ricerche per ottenere informazioni di carattere biografico su personaggi illustri.
A partire dai primi anni Cinquanta Conti dette inizio a una sistematica schedatura, coadiuvato da quella che lui definiva affettuosamente l’équipe familiare (la moglie Anna Luti, la madre e la sorella), e il lavoro si protrasse per circa un decennio, aggiungendo all’analisi del primo catasto del 1427 anche quelle dei successivi e vagliando un’altra quantità di fonti integrative, dalle ricordanze domestiche alle provvisioni, dai verbali dei dibattiti consiliari ai bilanci dello stato, dalle imbreviature notarili alle cronache e ad altro ancora. La meta doveva essere un’opera che illustrasse a tutto tondo la società di Firenze del Quattrocento, quella Firenze rinascimentale che annoverava tanti studiosi dei fenomeni culturali, artistici e politici, ma nessuna approfondita analisi d’insieme sulla società dalla quale quei fenomeni erano scaturiti2.
Il proposito di studiare a fondo la città lo convinse presto come l’analisi sarebbe stata parziale senza un’approfondita conoscenza delle sue basi rurali, in conseguenza dello stretto rapporto che legava ormai il centro urbano al territorio da esso dipendente. Dipendente politicamente (lo stato fiorentino nel Quattrocento aveva costruito una ben strutturata rete amministrativa nel territorio la cui gestione era affidata a ufficiali cittadini); dipendente economicamente per gli stretti rapporti di interscambio commerciale, per il flusso giornaliero di manodopera e quello definitivo degli immigrati in città che pure continuavano a mantenere frequenti contatti con i luoghi d’origine, e ancora perché l’aspirazione del fiorentino del tempo appartenente agli strati sociali superiori e mediani era avere una o più possessioni in contado.
Il risultato di questa aspirazione cittadina fu l’affermazione dell’unità di coltura che prende il nome di podere e di quel contratto stipulato tra proprietario e lavoratore che prende il nome di mezzadria, già in via di affermazione nei due secoli precedenti e nel primo Quattrocento ormai fortemente diffusa nelle zone più fertili e logisticamente convenienti per gli investimenti cittadini. «Nella società cittadina la figura del proprietario terriero non era nettamente distinta da quella dell’uomo di stato, del mercante, dell’imprenditore, dell’usuraio, del professionista, dell’artigiano, del prestatore d’opera più o meno qualificato (…). La politica, gli affari, il lavoro, tutta la vita soffriva di un continuo stato di precarietà. L’elemento costante, ciò che poteva assicurare una base all’esistenza cittadina e rappresentare una garanzia per la continuità della famiglia era la possessione». La diversità dell’investimento nella terra ovviamente variava. «Dai proprietari di qualche appezzamento di terra seminativa o a vigna, del valore di pochi fiorini, si passava gradatamente ai proprietari per migliaia e migliaia di fiorini. Tuttavia la proprietà media, cioè della quantità di terra sufficiente ad assicurare col suo reddito la sussistenza di una famiglia costituiva la classe statisticamente più numerosa» 3.Seguire la formazione delle unità poderali, spesso risultato di una paziente strategia che durava per più generazioni, e valutarne le ragioni (fossero desiderio di autosufficienza alimentare in un’epoca di non rare carestie, o di un investimento sicuro, o, per i più agiati, dimostrazione evidente di successo sociale ed economico) significava mettere in luce uno degli aspetti fondamentali della rivoluzione borghese toscana del tardo medioevo.
Perciò, dopo oltre un decennio di lavoro, Conti decise di pubblicare una serie di volumi dedicati alle campagne, considerandoli propedeutici alla realizzazione del suo originario progetto sulla città. L’opera è intitolata La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino e prevedeva un’articolazione in tre volumi. Il primo, dedicato alle campagne nell’età precomunale vide la luce nel 19654, insieme alla seconda parte del terzo volume, che contiene le monografie su dodici zone campione e le tavole statistiche con dati riferiti all’intero contado fiorentino, popolo per popolo5; e ancora in quell’anno è pubblicata la prima parte del terzo volume, però incompleta e in tiratura molto limitata, con la dicitura “edizione speciale”6. L’anno seguente è la volta de I catasti agrari della Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano7, preziosa opera a sé, contenente però anche alcuni capitoli e tavole già presenti nell’edizione provvisoria della prima parte del terzo volume. Il secondo volume non è mai stato pubblicato e per la verità sulla materia che doveva trattare non ho neanche assolute certezze: pare ovvio supporre che sarebbe stato dedicato all’evoluzione della struttura agraria nel XIII e nel XIV secolo, e sicuramente nei propositi dell’autore era prevista un’ampia appendice dedicata al popolo di Selvole, estesa dal Mille agli anni Sessanta del Novecento; non poteva essere il volume pure annunciato da Conti col titolo Le campagne toscane nel Quattrocento, raccolta di testi e documenti dedicati ad altre quattro zone campione, mentre le monografie delle ultime quattro zone campione avrebbero dovuto essere pubblicate in appendice a La società fiorentina nel Quattrocento. I. Le basi rurali8 .
Dunque un’opera incompiuta e malgrado ciò fondamentale, dimostrazione eloquente del rigoroso ‘pensare in grande’ del suo autore, alieno per tutta la vita dai lavori di piccolo cabotaggio che pure erano da molti considerati indispensabili come titolografia da concorsi. Malgrado la complessità della materia, la chiarezza espositiva è costante in tutte le centinaia di pagine di questi volumi. Benché molte pagine siano occupate da tabelle di dati numerici (Conti era un convinto assertore dell’importanza per gli storici della scienza statistica, fino ad allora assai poco praticata dalla medievistica italiana9), la capacità di scrivere in tono dialogico senza nessuna concessione a frasi ad effetto –pure così presenti ed efficaci nella prosa del suo amato maestro Salvemini- è anch’essa un modello. Potrà sembrare sovrabbondante la quantità di minute informazioni passate analiticamente in rassegna (mi riferisco in particolare al primo volume sulle campagne altomedievali), il vaglio continuo della maggiore o minore affidabilità delle fonti e l’interpretazione puntuale di una terminologia non di rado vaga o criptica, ma le risposte che alla fine arrivano, con la dimostrazione di quali siano da considerarsi certe e quali ipotetiche, sono conclusioni spesso innovative e sempre nitide. Tra gli apprezzamenti, molto misurati, che Conti elargiva ai suoi laureandi c’era la frase, tra noi poi divenuta proverbiale, «sì, hai una buona penna»: e chi ne era il felice destinatario sapeva che il giudizio era soprattutto un riconoscimento alla capacità di esporre con chiarezza sintattica e concettuale.
Gli anni nei quali lavorava a queste ricerche erano quelli dell’ineluttabile concludersi della mezzadria, dello spopolamento delle campagne, della fine di una civiltà rurale che si era protratta per secoli. A questa svolta epocale Conti dedica qualche frase nell’introduzione al primo volume10, ma in questo senso mi è sempre rimasto impresso il modo oggettivo e piano con cui termina la monografia su Poggialvento, l’indagine delle cui trasformazioni partendo dall’alto medioevo aveva condotto fino al 1963, facendo ricorso per l’ultimo periodo anche ad una convinta applicazione dei metodi dell’oral history: «Nella casa della Torre abita ancora un vecchio pigionale, Gaetano Sardelli detto Gano del Sardella (famiglia di tre persone), operaio a giornata, che sta cercando casa altrove per non restare isolato quando anche l’ultimo mezzadro sarà partito»11.
Le zone campione
Il fulcro della ricostruzione storica di Conti sono state le zone campione. «Un altro criterio metodologico che ho tenuto sempre presente è che la storia agraria ha bisogno di muoversi in una dimensione spaziale concreta. Perciò ho preso in esame di solito solo territori topograficamente determinabili e circoscrivibili, studiandoli anzitutto nel loro aspetto attuale. Senza una localizzazione precisa, infatti, molti rapporti restano sospesi in uno spazio astratto, come puri fantasmi. Non si possono utilizzare, per esempio, gli elementi paesistici forniti da una fonte medievale senza sapere cosa vi sia oggi, esattamente, nel punto da essa descritto. In questo campo è assai facile cadere in errori di prospettiva. Troppo spesso si dimentica, nelle rappresentazioni del paesaggio dell’alto medioevo, che boschi e pascoli occupano ancora una parte notevole delle nostre colline…»1. In questa dichiarazione d’intenti, abbastanza polemica verso descrizioni della storiografia troppo impressionistiche e generiche o troppo inclini a mettere in relazione tra loro fatti distanti nel tempo e nello spazio, si può riconoscere il costante impegno alla concretezza di Conti.
L’importanza per la storia agraria di orizzonti delimitati e di esempi concreti lo aveva condotto a scegliere, dopo una schedatura globale del materiale dei Catasti, venti zone campione. La scelta era stata compiuta in base ad alcuni essenziali requisiti. Il primo, come Conti spiegava nel precedente brano, che queste venti ricerche particolari fossero dedicate a porzioni di territorio circoscrivibili, i cui confini potessero essere tracciati sulle carte; il secondo requisito era la possibilità di attingere per quelle zone a un’ulteriore documentazione superstite sufficientemente copiosa, da aggiungere a quella delle fonti fiscali; il terzo, che nel loro insieme queste zone rappresentassero la variegata realtà del territorio toscano, dalle zone di pianura alle colline, ai rilievi più accentuati, alla maggiore o minore vicinanza alla città, in modo che costituissero testimonianze di paesaggi agrari e anche umani diversi. Microcosmi rurali le cui vicende potevano essere considerate esemplari e, queste sì, essere comparabili.
Compiuta la scelta, iniziava allora la sua ricerca sul campo, accurata quasi quanto quella condotta sui documenti. Armato di tavolette dell’IGM 1:25000 e della sua reflex Canon (così come per i calcoli statistici l’unico strumento tecnologico era stata una Divisumma dell’Olivetti) camminava per quei campi, interrogava la gente del luogo, censiva l’ubicazione precisa di toponimi indicati dalle carte e di altri affidati solo alla tradizione orale, destinata a dissolversi ben presto per i grandi mutamenti che stavano avvenendo. Prendeva nota della natura dei terreni, delle colture presenti e di quelle da poco abbandonate ma ancora individuabili. Fotografava, annotando sulla carta il punto esatto dal quale era stata scattata l’immagine. Chiedeva lumi ad amici come i geografi Giuseppe Barbieri e Lucio Gambi e il fotografo Guido Biffoli. Lavorava senza nessuna ansia di produrre in tempi brevi risultati non abbastanza meditati. Purtroppo la sua opera è rimasta incompiuta, ma nonostante ciò resta una lezione magistrale.
1 Ivi, p. VIII
1 G. Canestrini, La scienza e l’arte di stato desunta dagli atti ufficiali della Repubblica fiorentina e dei Medici, I. L’imposta sulla ricchezza mobile e immobile, Firenze, Le Monnier, 1862; O. Karmin, La legge del Catasto fiorentino del 1427, Firenze, Seeber, 1906.
2 La schedatura confluiva in quattro settori tematici principali: le basi rurali della vita cittadina; economia e finanze; la struttura sociale; la struttura politica e la vita civile. “Mi propongo” scriveva “di studiare tutti gli aspetti: popolazione, divisione della proprietà, organizzazione del capitale, industria, commercio e lavoro cercando di metterle in relazione con l’uomo, la sua condizione di vita, le sue passioni e aspirazioni, la sua mentalità” (cfr. G. Pampaloni, Elio Conti, “Archivio Storico Italiano”, CXLVIII (1990), pp. 233-248).
3 E. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino. I. Le campagne nell’età precomunale, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1965, pp. 2-3.
4 Cfr. nota precedente. In appendice al volume era pubblicata l’ampia e dettagliatissima monografia dedicata a Poggialvento, col titolo L’evoluzione agraria di un territorio campione dal Mille a oggi (pp. 219-420)
5 E. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, III, parte seconda, Monografie e tavole statistiche (secoli XV-XIX), Roma, Istituto storico Italiano per il Medioevo, 1965. Le zone campione trattate in questo volume sono quelle di Acone, Gaville, Macioli, Montaceraia, Montecalvi, Mosciano, Panzano, Passignano, Paterno, Pulica, Le Rose e Rostolena.
6 E. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, III, parte prima, Fonti e risultati sommari delle indagini per campione e delle rilevazioni statistiche (secoli XV-XIX), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1965. Evidentemente questa “edizione speciale” in veste non definitiva dovette la sua nascita un po’ prematura all’incombere di un concorso a cattedre, con relativa stringente scadenza di presentazione delle pubblicazioni; concorso che Conti vinse, trasferendosi in seguito alla vittoria come docente ordinario a Trieste e qui trascorrendo quello che ricordava come uno dei periodi più sereni della sua vita. Però il trasferimento dovette influire non poco nell’interruzione dei suoi progetti scientifici.
7 E. Conti, I catasti agrari della Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano (secoli XIV-XIX), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1966
8 Traggo queste informazioni cercando di interpretare quanto è scritto in La formazione cit., I, p. 217 e III, parte seconda, p. 9. Le zone campione la cui pubblicazione era prevista nel volume Le campagne toscane erano quelle di Campi, Fagna, Nipozzano e Semifonte, mentre in appendice a La società fiorentina nel Quattrocento. I. secondo gli intenti dell’autore sarebbero state pubblicate le monografie su Artimino, Perticaia, Spaltenna e Spugnole.
9 “Quasi tutti i rapporti economici e sociali possono essere espressi in rapporti numerici. In questo senso la statistica rappresenta per lo storico non solo una scienza ausiliaria, ma anche una forma di linguaggio, ostico ai più ma non privo di una sua sobria eleganza. Una serie di cifre, convenientemente analizzate nella loro provenienza e nel loro significato, può spesso riassumere lunghe ricerche e costituire la base più oggettiva possibile per caratterizzazioni e confronti. Beninteso, l’indagine storica non deve mai perdere di vista i singoli individui, nei loro infiniti modi di essere e di porsi in relazione gli uni con gli altri. Tutto ciò scompare o resta appiattito se tradotto in cifre. Ma l’ideale sarebbe di poter sempre disporre di dati generali, che permettano di collocare ogni individuo nel suo ambiente sociale o di saggiare la rappresentatività di ogni situazione concreta nel suo ‘universo’ statistico. Fornire questi dati, illuminare queste strutture, è uno dei primi compiti dello storico dell’economia e della società’
10 La formazione della struttura agraria. I, cit., p. 5
11 Ivi, p. 420
1 Sull’argomento si veda anche il tributo scritto da un altro sodale di quei verdi anni: G. Vannini, Elio Conti e l’archeologia medievale, “pca”, I, 2011, pp. 431-440.